Intervista - Psicologo del Lavoro: dipendente, collaboratore o freelance

Psicologo del lavoro: dipendente, collaboratore o freelance?



Intervista di Massimiliano Massaro a Stefano Verza - Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni



Come ben sappiamo anche la nostra professione, può declinarsi in ambiti diversi: dipendente, collaboratore di una società di consulenza, libero professionista freelance. L’intervista al collega Stefano Verza mira a raccogliere la sua esperienza diversificata su ognuna di queste aree, stimolando una riflessione sulle capacità e accortezze necessarie in questi tre diversi contesti d’azione.

 


Stefano, quali sono a parer tuo le differenze e le similitudini di uno psicologo del lavoro in questi tre diversi ambiti di azione?

I punti di contatto riguardano i contenuti che tratti: puoi fare le stesse cose. Quello che cambia è l’ottica, l’approccio, con cui le devi fare.

Partiamo dall’inizio: la tua esperienza in azienda.

Ho iniziato come freelance lavorando da solo. Quasi subito mi sono però accorto che non riuscivo talvolta a comprendere molte delle cose che mi raccontavano della vita aziendale, forse perché ero giovane. Mi riferisco ad aspetti di demotivazione, di conflittualità, di incoerenza nel funzionamento dell’ordinario lavoro quotidiano dei miei clienti. Non sapevi mai quanto ciò che ascoltavi fosse un’invenzione o meno. Quindi mi ero ripromesso che sarebbe stato utile vivere un’ esperienza all’interno di un’ azienda. Il mio pensiero era: “Mi completo ed esco”! E così ho fatto!


Mi è capitato quindi di iniziare la mia esperienza aziendale all’interno del settore creditizio, dove ci sono rimasto per circa quattro anni. Ero identificato come lo specialista delle risorse umane. Sono entrato proprio perché in quegli anni si iniziava a puntare – soprattutto per questioni legislative – sulla figura dello psicologo del lavoro. Erano, e sono stati anni d’oro, dove la competenza specialistica della nostra professione iniziava a rendersi visibile. In sostanza gli ambiti di cui mi occupavo erano tre: selezione, valutazione del potenziale e performance. Tutte queste attività erano state presidiate prima del mio ingresso da altre persone che non avevano però una formazione psicologica.


I primi feedback positivi sono arrivati dai colleghi della formazione, che in aula riconoscevano un diverso target di popolazione in addestramento rispetto al passato: più motivato e più orientato all’apprendimento delle tematiche di business che trattavamo.

 

Tuttavia in azienda ho però vissuto delle condizioni emotive di depressione e demotivazione che alla fine mia hanno fatto scegliere di cambiare percorso. Nel complesso è stata però un’esperienza importante, che mi ha permesso di vivere molte dinamiche significative della vita aziendale. Mi riferisco a dinamiche di ruolo, di potere e di tempistiche organizzative, dove la mediazione tra tutti questi elementi era quotidianamente necessaria per svolgere il mio lavoro di psicologo.


Personalmente demotivato da questi processi di funzionamento, dopo quattro anni, ho colto un’opportunità di un progetto, e sono uscito. Ed è iniziata la mia esperienza all’interno di una società di consulenza.


Cos’è cambiato?

Anche in questo caso ero l’unico psicologo nel gruppo di lavoro. L’ingresso in questa nuova realtà mi ha dato l’opportunità di poter vedere tante realtà diverse, tanti settori, tante situazioni, e sicuramente l’occasione di poter lavorare in termini di squadra. Cosa che nell’esperienza precedente era mancata. Quindi il piacere di apprezzare un lavoro svolto insieme ad altri. Inoltre mi è stato permesso di aprire la mente dialogando con più professionisti, uscendo finalmente da aspetti emotivi troppo diretti che il vivere in una realtà aziendale gioco forza ti obbligavano a fronteggiare. Nell’esperienza in azienda – pur avendo studiato come certi meccanismi e logiche disfunzionali fosse utile combatterle -, ho visto come in realtà era ben difficile farvi fronte, e quanto dopo tutto era facile essere demotivato. Invece, nell’esperienza con la società di consulenza, ho sperimentato quanto fosse ottimale questo connubio tra psicologia e approccio organizzativo. Dallo scambio reciproco, io acquisivo un arricchimento organizzativo, gli altri colleghi invece da me raccoglievano un aspetto più legato alla lettura delle dinamiche psicologiche del funzionamento aziendale.


L’azienda a differenza della società di consulenza era una realtà più politicadove la possibilità di poter provare a creare nuovi filoni di azione era preclusa quasi a prescindere. In una realtà consulenziale avveniva proprio l’opposto: sperimentazione e innovazione erano costantemente ricercate.


Conclusa l’esperienza consulenziale, ti riproponi sul mercato del lavoro come libero professionista freelance. Ci sono ulteriori differenze a parer tuo?

Come libero professionista freelance cambia di molto l’opportunità di poter ampliare il range di cose che puoi praticare, semplicemente perché ti piace farle. Ad esempio ti puoi occupare di aspetti di coaching, che come dipendete in una azienda difficilmente potresti fare con il personale. Allo stesso modo prendere in carico clienti per sostegno o counseling in privato. 

C’è quindi la possibilità di fare ciò che più ti piace, o per lo meno investire le tue energie verso ciò che ti stimola di più. In questa veste, difatti ho partecipato anche a delle ricerche con l’Università per percorsi di transizione dal lavoro al pensionamento. Mi sono occupato di aspetti di volontariato, e come dicevo mi sono dato l’opportunità di dedicarmi ad aspetti legati al supporto psicologico. Aspetto quest’ultimo che l’esperienza sia in azienda quanto in società di consulenza, rischia di inaridire.

Ho però perso tante cose. Il piacere di giocare in squadra e di avere un confronto che non è da poco nel nostro mestiere che necessita di integrazione e arricchimento.


In questi tre ambiti nei quali uno psicologo del lavoro si può spendere, ci sono a parer tuo capacità differenti da giocare?


Sicuramente. Mi ricordo il mio ex capo dell’azienda dove ho lavorato! Appena entrato mi disse: “Mi raccomando, qui abbiamo bisogno di impiegati, non di geni”. Fu una battuta molto forte, ma era per sottolineare un aspetto importante: dimentica tutto quello che è la tua voglia di innovazione, di creare, di andare oltre a quello che vedi. Oggi, devo dire che le aziende sono cambiate, ma non ancora tutte, e sicuramente ognuna con il suo grado di disponibilità nell’essere attenta ai mutamenti del mercato.

Lavorando in un’ azienda, tra le capacità che uno psicologo del lavoro deve a parer mio possedere, vi è sicuramente l’umiltà di capire il contesto in cui si è, quella che generalmente oggi si definisce come “intelligenza sociale”. Ovvero essere disposto a fare ciò che serve, più che ciò che piace. Oltretutto essere in grado di sopportare le frustrazioni e lo stress dettato dai vincoli che presiedono il funzionamento di un’organizzazione. Se il lato positivo è che in un’ azienda inizi un progetto potendo vedere il percorso e la logica che lo sostiene, dall’altra devi tener in debito conto che dalla partenza alla fine può sovente succedere qualcosa che non ti permette di finire il quanto iniziato, e su cui hai tanto investito in termini di aspettative e di energie profuse. Un progetto può quindi essere abbandonato, talvolta senza molte spiegazioni perché non è più prioritario.


Invece, “fuori”: sia in una società di consulenza, sia come libero professionista freelance è molto meno stressante sotto questo punto di vista. Vieni chiamato per un progetto. Lo progetti, lo eroghi, e il tuo mandato è finito. Tra le capacità da possedere in questi ultimi due ambiti, direi sicuramente però la capacità di intessere buone relazioni sociali, e la capacità commerciale, anche se quest’ultimo aspetto per me è relativo. Perché se ti piace quello che fai, e lo sai fare bene, riesci a venderlo. Passa la tua passione e il tuo trasporto.


Aggiungo inoltre che come libero professionista freelance devi essere assolutamente in grado di reggere l’incertezza e il cambiamento. In questo senso, non puoi dire che in un periodo fortunato professionalmente la tua vita ha un certo tenore. Può esserlo per un periodo, ma può cambiare nel tempo. Devi quindi saper gestire queste fasi alterne del mercato. Inoltre devi sicuramente essere organizzato e gestire bene il tempo. Inoltre devi avere la disponibilità ad apprendere continuamente, ad aggiornarti e a portare qualcosa di nuovo.


Un fattore, che a parer tuo può legare queste tre esperienze professionali.


La gratificazione spesso vissuta attraverso il sorriso, il saluto e il ringraziamento di chi ho incontrato talvolta anche a distanza di tempo. Se si ricordano di te anche dopo un lungo periodo trascorso, per me vuole dire che hai fatto bene il tuo lavoro. Vuol dire che gli hai dato qualcosa indipendentemente dal loro percorso professionale.


Uno slogan che ritieni utile per definire uno psicologo che lavora nelle organizzazioni?

“Un professionista che regala qualcosa di sé all’altro”.


 

Stefano Verza, psicologo del lavoro e delle organizzazioni. Autore di diversi articoli sulla gestione e sullo sviluppo delle Risorse Umane. Dal 1990 si occupa della crescita delle persone, prevalentemente in ambito organizzativo, con interventi di consulenza, formazione e coaching. Coautore del libro “Management by Zen Koan”,2009- Ed. Guerrini.




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