Intervista - Com'è nata la nostra professione?

Com'è nata la nostra professione in Italia



Intervista di Massimiliano Massaro a Maria Giovanni Rotondi



 Com’è nata la nostra professione in Italia.

Lo spiega Maria Giovanna Rotondi una delle prime psicologhe del lavoro

La professione di psicologo in Italia è stata ufficialmente riconosciuta dalla legge 56 del 1989.

Tuttavia già a partire dagli anni ’70, molti consulenti – che diventeranno poi i primi psicologi del lavoro -, lavoravano con un approccio psico-sociale nelle aziende grazie al fermento di alcune scuole di specializzazione post-laurea. L’intervista a Maria Giovanna Rotondi rappresenta una fedele esperienza del percorso formativo e professionale di una delle prime psicologhe del lavoro.


Dott.ssa Rotondi, qual è stato il suo percorso studiorum?

Mi sono laureata a Milano in lettere moderne con una tesi in filosofia morale. Nel mio percorso, avevo tuttavia deciso di dare tutti gli esami di psicologia presenti nel piano di studio.

La facoltà di Psicologia è nata successivamente. Sono però entrata a far parte della categoria professionale dopo la nascita dell’Ordine degli psicologi, grazie al fatto che avevo maturato una discreta esperienza nel settore della psicologia applicata ai contesti organizzativi.

Finiti gli studi, quando iniziai il mio percorso professionale a Milano, c’erano pochi ma significati “luoghi molto attivi” che trattavano aspetti inerenti la psicologia applicata nei contesti organizzativi. Mi riferisco al gruppo di Enzo Spaltro, che oltre a essere docente presso l’Università Cattolica di Milano, in Via Santa Agnese aveva aperto una scuola di nome IRIPS (Istituto di Ricerche ed Interventi Psicosociali). Questo Istituto stimolò molto la diffusione delle tematiche inerenti la psicologia dei gruppi e le sue dinamiche nel corso di quegli anni, così come gli interventi nelle aziende con un taglio prettamente psicologico e psicosociale. Fu anche da innesco per la nascita e lo sviluppo di importanti società di consulenza come l’attuale ISMO.

C’è da dire che oltre alla scuola di Spaltro, un ulteriore punto di riferimento per la formazione dei primi psicologi del lavoro in Italia, è stata la scuola di Luigi Pagliarani, fondatore della psicosocionalisi Italiana, approccio oggi ancora validamente rappresentato dalla scuola “Ariele”. In quegli anni, Pagliarani affrontava il tema della consulenza al ruolo, nonché temi legati alla leadership e a forme funzionali e difensive di esercizio del potere.

Sono stati principalmente questi i due luoghi particolarmente fecondi e volti a formare coloro che avrebbero poi affrontato i problemi organizzativi del mondo del lavoro Italiano in ottica psico-sociale, permettendo di fatto di dare avvio ai primi professionisti in psicologia del lavoro in Italia.

Erano gli anni ’70. Erano i primi entusiasmanti albori.

Aggiungo inoltre che molti dei colleghi che poi hanno seguito questa formazione in psicologia del lavoro parallelamente si occupavano di formazione aziendale. Molti di noi difatti erano formatori iscritti all’ AIF – Società Italiana Formatori – perché essenzialmente il lavoro d’aula copriva buona parte del bisogno di consulenza di quegli anni. Quindi, ricchi di queste esperienze professionali e di una formazione specifica post laurea, molti di noi si sono occupati di formazione con un taglio non esclusivamente volto ai soli contenuti, ma orientato anche ad aiutare e supportare le persone a comprendere meglio il rapporto che fra sé e il proprio ruolo, fra sé e il proprio lavoro, e fra sé e la propria azienda.


All’inizio della sua carriera, qual era la percezione dello psicologo che entrava in azienda?

Quando iniziai a lavorare, chi era psicologo stava bene attento a presentarsi come tale in azienda. Io e i miei colleghi ci guardavamo bene dal dirlo. Negli anni 70 e 80 c’era l’accesa fantasia che se eri uno psicologo, riuscivi a carpire chissà quali segreti reconditi di una persona. Questo aspetto oggi si è ridimensionato molto, anche se qualche collega dal canto suo preferisce non esplicitarlo comunque. Oggi proporre da subito la propria estrazione psicologica come professionista, secondo me gioca invece un plus. C’è oggigiorno una maggiore cultura della psicologia nelle organizzazioni.


C’è stato quindi un miglioramento in questo senso nel corso del tempo?

Assolutamente sì. Quando oggi mi presentano ai loro collaboratori, i miei committenti dicono sempre che sono una psicologa. È’ un segno importante di riconosciuta professionalità. Come dicevo, oggi c’è una maggior conoscenza diffusa nel mondo aziendale della psicologia, e in fondo si attribuisce allo psicologo una maggior comprensione rispetto ad altri professionisti nella lettura delle dinamiche sia individuali sia di gruppo.

C’è comunque da aggiungere una nota oggi ancora importante che sfugge in molti contesti organizzativi: la precisa chiarezza da parte del cliente/committente della distinzione tra uno psicologo cosiddetto “clinico” e uno del “lavoro”. Io lo preciso sempre, e sottolineo che il mondo aziendale è il nostro luogo di lavoro. Che sappiamo di organizzazione e di problemi che riguardano gli aspetti lavorativi.


In ogni modo i clienti e i committenti aziendali si aspettano anche da noi psicologi del lavoro, la stessa capacità di ascolto e di lettura delle persone e dei gruppi che attribuiscono culturalmente agli psicologi clinici.


Tuttavia i colleghi di estrazione clinica, a fronte di una maggiore capacità di lettura dell’individuo, non sempre hanno maturato una buona capacità di lettura delle dinamiche organizzative, così come dei rapporti capo-collaboratore, dei conflitti tra due interfacce di due funzioni diverse, o comunque delle dinamiche tipiche presenti nel contesto del lavoro.


A fronte della sua esperienza, quali competenze deve possedere uno psicologo del lavoro?

Innanzitutto uno psicologo del lavoro necessita di avere, ancor più di altri professionisti del mondo aziendale, una buona consapevolezza di sé. Questa è una prerogativa ad una buona efficacia professionale. Da mia esperienza, gli psicologi del lavoro che hanno un buon successo, hanno alle spalle anche un background come formatori. Aiuta sicuramente molto conoscere i modelli e i metodi formativi, nonché la competenza nel saper comunicare in modo efficace. Ritengo inoltre che bisogna aver fatto esperienza in un’ organizzazione, almeno di due anni. Questa esperienza, unita alle conoscenze del proprio mestiere facilita la lettura del funzionamento organizzativo e di riflesso la capacità di saper individuare percorsi e strategie fattibili a fronte dei problemi oggetto di lavoro. C’è comunque da dire che servizi più circoscritti, come possono essere il coaching o il counseling, necessitano meno di questa competenza di lettura organizzativa. Per tutto il resto, va considerata come vera e propria competenza professionale.

In ogni modo sarà bene che lo psicologo del lavoro che entra in un’ azienda, si faccia raccontare la vita dell’organizzazione con attenzione, per capire bene e con dettaglio i problemi che vivono i nostri interlocutori.

Inoltre deve possedere un certo “impatto”! Ovvero quella capacità complessa che è la leadership. Nel senso del saper portare il proprio influenzamento. Un po’ di sano narcisismo ci vuole. Ovviamente non troppo.

Inoltre lo psicologo del lavoro deve essere anche un buon contraddittorio per il suo cliente. Questo aspetto vale soprattutto per lo psicologo nelle vesti di consulente. Perché non è sempre detto che il cliente abbia ragione. In alcune circostanze sarebbe un errore assecondarlo. Il cliente pur avendo le sue motivazioni va comunque confrontato professionalmente con il nostro punto di vista. Questo fa parte del nostro mestiere in alcune occasioni.


Da sua esperienza quali servizi ha riscontrato essere maggiormente richiesti dalle aziende?

Una delle aspettative specificatamente rivolte a noi psicologi del lavoro è il saper creare e facilitare il buon funzionamento nei team di lavoro. Inoltre, noto con sempre maggior frequenza la richiesta di counseling aziendale. Seppur alcuni clienti lo traducano espressamente con “l’etichetta di coaching”, in fase di esplorazione del bisogno, ne sostanziano – per noi che conosciamo le differenze – una richiesta di vero e proprio counseling. Ovvero la presa in carico della persona nella sua totalità, non solo in merito allo sviluppo di specifiche capacità di ruolo.

In ogni modo, anche quando il cliente ti dice che un suo collaboratore è carente in una determinata capacità, se sta chiamando uno psicologo, ti sta implicitamente chiedendo di vedere la persona in una veste al crocevia tra l’aspetto prettamente lavorativo e quello più “personale”.


“E’ riconosciuta a noi psicologi la presa in carico di una persona per aiutarla in un percorso di evoluzione positiva che riguarda il sé”.


Una sua esperienza professionale tra le tante, che l’ha resa consapevole dell’importanza del nostro ruolo nelle aziende.

Certamente quella presso la Guzzini illuminazione per cui ho lavorato per tantissimo tempo. Ciò che ho fatto lì, oltre ad occuparmi di aspetti più tradizionali inerenti la selezione in ingresso e la valutazione, è stato un servizio che abbiamo deciso di chiamare i “colloqui di monitoraggio”. Un servizio che si lega molto bene al contributo che come professionisti possiamo dare in una azienda.

Nei giorni in cui ero in azienda, avevo uno spazio che dedicavo per volontà della direzione a chi voleva fare un colloquio con me. Ma poteva anche capitare che fosse la stessa direzione del personale che suggeriva il servizio ai collaboratori e si preoccupava di prendere appuntamento per loro. Questo spazio di dialogo era aperto a tutto il personale senza distinzione: giovani con responsabilità in crescita, ma anche dirigenti e capi di strutture organizzative.


Erano colloqui di circa un’ora con persone che io tendenzialmente già conoscevo per i percorsi di valutazione del potenziale o d’aula precedentemente svolti. Lo spazio era confidenziale e libero nell’argomento di consultazione da parte dei miei clienti. I temi potevano essere legati alla loro motivazione, a questioni operative, o altro.

L’aspetto importante e prezioso era che loro si sentivano liberi di parlarmi sapendo che avrei gestito con riservatezza le loro confidenze, e che io in qualche modo avrei cercato di negoziare una soluzione plausibile con l’intento di risolvere l’eventuale problema per loro. O viceversa evidenziare loro qualche aspetto che li riguardava nella gestione del loro ruolo, e che loro avevano sottovalutato.


Aggiungo inoltre che la cosa bella era che la direzione si fidava. Anche se in alcuni casi la linea di “strumentalizzazione” del mio ruolo per far passare alcune informazioni o messaggi in modo indiretto era parte del gioco, in fondo la Direzione non mi chiedeva informazioni sul personale in misura maggiore a quello che io potevo loro dire, senza venir meno alla necessaria riservatezza. Il fine del servizio offerto era comunque quello di agevolare consapevolezza individuale e organizzativa.


“Questo è stato un bel modo di svolgere la professione di psicologa del lavoro. La ricerca di piani di negoziazione e intervento a vantaggio del buon funzionamento della vita lavorativa quotidiana.”


In queste occasioni, ogni tanto capitava di dare qualche suggerimento concreto alla Direzione su come fare ad affrontare un problema. Ma questo a latere. Il servizio era per il personale, ed era uno spazio comunque di ascolto e alcune volte anche di sfogo per affrontare il problema e individuare alternative di soluzione per poi trasmetterlo nelle sedi giuste. Questa è stata per me una bellissima esperienza. Una di quelle cose che ti fa sentire utile. Monitoravo lo stato d’animo del personale, il loro inserimento, il loro stare in azienda.


Tra i servizi che uno psicologo dovrebbe promuovere, c’è anche questo.

Per me sì. Sarebbe utile vederlo esteso nelle aziende come cultura organizzativa e prevedere un intervento cadenzato come quello che ho qui descritto. Una volta difatti nelle aziende vi erano gli assistenti sociali che credo oramai non esitano più. Oggi le persone fanno molto da sé. Vanno all’ufficio del personale, dal loro capo, ecc. ma una figura professionale capace di ascolto, ma anche eventualmente di risposta, credo che sarebbe una risorsa organizzativa utile al buon funzionamento di qualsiasi organizzazione.



Cosa suggerirebbe ad uno psicologo del lavoro per sviluppare al meglio la sua preparazione?

Innanzitutto come accennavo prima, gli suggerirei di provare a fare esperienza in un azienda. Se giovane, anche come stagista. Partecipare da dentro alla vita lavorativa è un esperienza utile. Esci da un’ esperienza organizzativa avendo imparato cose che forse non sai nemmeno di aver appreso, che ti permetteranno di “vedere” il mondo con cui ti confronterai con maggiore chiarezza.

È inoltre importante possedere dei modelli psicologici – numericamente ampi – capaci di poter interpretare e restituire quanto avviene nei contesti organizzativi. Mi riferisco ad esempio alla sistemica, all’analisi transazionale, al modello materno e parterno di Fornari, e qualt’altro. Modelli psicologici di descrizione della realtà che possano permettere una decodifica utile agli occhi del cliente, e sostenere un eventuale intervento organizzativo in modo coerente.



Maria Giovanna Rotondi – Psicologa del Lavoro e delle Organizzazioni, consulente ISMO e successivamente partner TESI come responsabile dell’Area Valutazione e Sviluppo Individuale. Oggi libera professionista e appartenente al network ReteAbaco.com, mi occupo di formazione, valutazione e apprendimento dei singoli in ottica di sviluppo, consulenza ai managers per la gestione ottimale dello loro responsabilità e delle loro persone. Tra le mie pubblicazioni: Alcuni capitoli di Professione Formazione (AIF, Angeli – 1990), e Valutare il Potenziale (IPSOA – 2003).


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