Il lato oscuro della cultura organizzativa

Il lato oscuro della cultura organizzativa


Articolo di Davide Giusino - Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni.


La cultura organizzativa (organizational culture o company culture o corporate culture) viene definita da Schein (1985) come “l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi” (p. 35).


Si tratta di un costrutto composto da tre livelli (Schein, 1988). Gli artefatti: elementi visibili come le riunioni, i documenti, il dress code, gli spazi, gli oggetti fisici. I valori dichiarati, ossia le strategie, gli obiettivi, le filosofie, che si ritrovano in comportamenti pubblici, verbali di riunioni, procedure e policies, dichiarazioni ufficiali. Gli assunti taciti, che definiscono cosa è giusto, utile e cosa motiva le persone all’interno di un’organizzazione. Le prime due dimensioni di cultura organizzativa, artefatti e valori dichiarati, costituiscono l’organizzazione formale, ovvero la parte emersa della metafora dell’iceberg organizzativo di French & Bell (1990). Gli assunti taciti, invece, formano l’organizzazione informale, la parte sommersa dell’iceberg decisiva in termini di efficacia.

 

La cultura organizzativa offre senso di appartenenza, favorisce l’impegno verso la mission, e chiarisce e rinforza standard di comportamento. Così, i contributi di letteratura scientifica (ad esempio, Kreitner & Kinicki, 2010) indicano la coesione della cultura organizzativa come uno tra i maggiori fattori di successo aziendale. Questa affermazione risulta quantomai valida nell’ odierno panorama del mercato globalizzato, in cui soprattutto le medie e grandi imprese sono costrette a internazionalizzarsi per restare competitive, acquisendo di conseguenza un corredo di risorse umane sempre più multiculturale. Pertanto, le forze centrifughe delle differenze culturali devono essere contrastate dalle forze centripete di un sistema di valori aziendali fortemente coeso e collettivamente condiviso.

Questa è la logica della modalità di gestione cross-culturale delle risorse umane di multinazionali come Rosen, o contenuta nel famoso esempio del Netflix Culture Deck.

Tuttavia, spesso accade che il troppo stroppi, anche relativamente alla cultura organizzativa.

L’antropologia definisce la cultura come l’insieme di significati che una comunità attribuisce ai fenomeni della realtà, e alle modalità di azione ad esso conseguenti. Evidentemente, la cultura varia in base all’ epoca storica e allo spazio geografico in cui viene sviluppata ed espressa. Un esito negativo del processo di creazione di cultura coincide con l’etnocentrismo, ovvero il pregiudizio per cui la propria cultura sia migliore di qualsiasi altra. Un tema attuale in tempi di grandi flussi migratori.


Analogamente, le organizzazioni sono micro-comunità che strutturano sistemi di credenze e di modus operandi, diversi in base al contesto territoriale, sociale, economico, finanziario, politico, tecnologico, culturale.


Pertanto, ogni organizzazione si dota di una propria specifica cultura cosicché, parafrasando Hofstede (1980), sia possibile affermare che la cultura organizzativa sta all’ azienda come la personalità sta all’ individuo. Altresì, i modi tipici di operare all’ interno di un’organizzazione si riassumono nella frase: “questo è il modo in cui facciamo le cose da queste parti”.


Il problema nasce quando il grado di coesione della cultura organizzativa diviene eccessivo, degenerando in etnocentrismo organizzativo.

È il lato oscuro della cultura organizzativa, il pregiudizio per cui la cultura vigente nella propria azienda sia migliore della cultura di qualsiasi altra, per cui “il modo in cui facciamo le cose da queste parti” è migliore del modo adottato da qualsiasi altra parte.

 

La storia di un’organizzazione sedimenta modi di pensare e di agire, con il risultato che artefatti, valori e assunti culturali vengono tacitamente accettati come verità indiscusse e indiscutibili, una normalità data per scontata come giusta. È il pesce che non fa caso all’ acqua in cui nuota.

Tale atteggiamento rischia di rendere cieca un’organizzazione rispetto alle contingenze dell’ambiente esterno, ai suoi bisogni ed esigenze, alle sue domande e richieste. E di privarla di quelle caratteristiche di flessibilità, elasticità e adattabilità che sono fondamentali per non perire in un mondo dinamico e in rapido e costante mutamento. Il sentore è che ciò coinvolga tendenzialmente le piccole e media imprese (PMI) con alle spalle una tradizione di conduzione familiare.

 

In definitiva, per conseguire buone prestazioni organizzative, e raggiungere quella win-win situation in cui coesistono il profitto dell’organizzazione e il benessere dei lavoratori, appare necessario che le aziende esercitino l’autoconsapevolezza, l’introspezione, l’ autoriflessione, soprattutto da parte di chi dà l’esempio, ossia la leadership e il management, facendo il punto su come si è dentro e cosa c’è fuori per calibrare il proprio operato in funzione di un andamento positivo del proprio business.

Aggiungo infine che:


Lo psicologo del lavoro, affiancando la proprietà delle PMI e il management delle grandi imprese, si delinea come il professionista deputato alla cura e all’ agevolazione degli aspetti di cultura organizzativa.




Torna a Articoli
Share by: